Il saggio affronta il tema dell’antiziganismo che ha caratterizzato la presenza secolare delle popolazioni romaní in Europa a partire dalla diaspora dalle regioni del Nord-Ovest dell’India intorno all’anno Mille. I rom, fin dall’origine della loro presenza nel territorio europeo, hanno proiettato nelle società in cui si sono insediati l’ombra di un popolo difforme, non assegnabile ad alcun territorio, eppure diffuso ovunque, con una propria lingua, una specifica organizzazione sociale e valori comunitari preservati in un contesto di emarginazione e di ostilità diffusa. L’immagine prevalente dei rom e sinti è quella di un popolo “nomade”, non appartenente ad alcun territorio e, di conseguenza, senza legami di identificazione nelle diverse società in cui è inserito. Tale immagine risulta profondamente radicata sebbene sia contraddetta da un insediamento stabile plurisecolare in alcuni Stati europei ad Ovest come ad Est (Spagna, Francia, Regno Unito, in diversi Stati dell’area carpato-balcanica). La non appartenenza al territorio, la mancanza nelle modalità di insediamento di delimitazioni e confini, che rappresentano categorie cognitive ritenute essenziali alla stabiltà della percezione e nella decodifica del gruppi sociali, hanno determinato il segno minaccioso della rappresentazione e, congiuntamente, segnato il destino dei rom. La storia ci consegna una documentazione pressoché inesautibile di atti di ostilità, persecuzione, violenza e crudeltà ai limiti della sostenibilità umana riferibili ad ogni territorio europeo, ad Est come ad Ovest, che hanno accompagnato la presenza secolare del popolo romaní (Kenrick, Puxon, 1972; tr.it.,1975; Fraser, 1992; Crowe, Kolsti (eds.), 1991; Boni, 1996; Viaggio, 1997). L’immagine dei rom come nomadi si è quindi sedimentata nel tempo ed è giunta a segnare il loro destino, in particolare con l’avvento del nazionalsocialismo. All’interno di una ideologia che si prefiggeva di isolare e neutralizzare tutti i gruppi umani “inferiori”, indegni di essere inseriti nella comunità popolare, i gruppi rom furono gradualmente esclusi dal contesto locale attraverso un crescendo di misure volte al loro isolamento e alla cancellazione dei diritti: censimento della popolazione, confinamento in insediamenti specifici isolati e sorvegliati, sterilizzazione di uomini e donne, deportazione infine nei campi di concentramento e di sterminio (Lewy, 2000; tr.it., 2002). Attraverso un percorso di ricerche genetiche avviate fin dal 1936 dallo psichiatra e neurologo Robert Ritter e dalla sua assistente Eva Justin, si giunse ad affermare che gli zingari non potevano essere considerati "ariani puri" ma "ariani decaduti", appartenenti a una "razza degenerata". A questo si aggiunse l’elaborazione di una teoria sulla presenza nel sangue zingaro del gene del Wandertrieb, «istinto al nomadismo», segnando cosí il destino di migliaia di persone. Una nuova connotazione genetica venne assunta come spartiacque per la sopravvivenza, centrata nei caso dei rom non sulla razza non “ariana”, ma su una caratteristica congenita attribuita ad un intero popolo. E’ su queste basi che il nazionalsocialismo ha perpetrato il tentativo di sterminio del popolo romaní: si stima che 500.000 rom, uomini, donne e bambini, siano stati sterminati nel Samudaripen (tutti morti in lingua romanes) o Parrajmos (divoramento), perpetrato nei campi di sterminio e ancor più nelle pratiche di sterminio di massa in diversi territori europei sotto l’influenza del Terzo Reich (Boursier,1995; Fings, Heusse, Sparing, 1996; tr.it., 1998; Lewy, 2000; tr.it., 2002; Rosenberg, 1998; tr.it., 2000).

La "linea del confine". L'antiziganismo / Cipollini, Roberta. - STAMPA. - (2018), pp. 341-355.

La "linea del confine". L'antiziganismo

Roberta Cipollini
Primo
Conceptualization
2018

Abstract

Il saggio affronta il tema dell’antiziganismo che ha caratterizzato la presenza secolare delle popolazioni romaní in Europa a partire dalla diaspora dalle regioni del Nord-Ovest dell’India intorno all’anno Mille. I rom, fin dall’origine della loro presenza nel territorio europeo, hanno proiettato nelle società in cui si sono insediati l’ombra di un popolo difforme, non assegnabile ad alcun territorio, eppure diffuso ovunque, con una propria lingua, una specifica organizzazione sociale e valori comunitari preservati in un contesto di emarginazione e di ostilità diffusa. L’immagine prevalente dei rom e sinti è quella di un popolo “nomade”, non appartenente ad alcun territorio e, di conseguenza, senza legami di identificazione nelle diverse società in cui è inserito. Tale immagine risulta profondamente radicata sebbene sia contraddetta da un insediamento stabile plurisecolare in alcuni Stati europei ad Ovest come ad Est (Spagna, Francia, Regno Unito, in diversi Stati dell’area carpato-balcanica). La non appartenenza al territorio, la mancanza nelle modalità di insediamento di delimitazioni e confini, che rappresentano categorie cognitive ritenute essenziali alla stabiltà della percezione e nella decodifica del gruppi sociali, hanno determinato il segno minaccioso della rappresentazione e, congiuntamente, segnato il destino dei rom. La storia ci consegna una documentazione pressoché inesautibile di atti di ostilità, persecuzione, violenza e crudeltà ai limiti della sostenibilità umana riferibili ad ogni territorio europeo, ad Est come ad Ovest, che hanno accompagnato la presenza secolare del popolo romaní (Kenrick, Puxon, 1972; tr.it.,1975; Fraser, 1992; Crowe, Kolsti (eds.), 1991; Boni, 1996; Viaggio, 1997). L’immagine dei rom come nomadi si è quindi sedimentata nel tempo ed è giunta a segnare il loro destino, in particolare con l’avvento del nazionalsocialismo. All’interno di una ideologia che si prefiggeva di isolare e neutralizzare tutti i gruppi umani “inferiori”, indegni di essere inseriti nella comunità popolare, i gruppi rom furono gradualmente esclusi dal contesto locale attraverso un crescendo di misure volte al loro isolamento e alla cancellazione dei diritti: censimento della popolazione, confinamento in insediamenti specifici isolati e sorvegliati, sterilizzazione di uomini e donne, deportazione infine nei campi di concentramento e di sterminio (Lewy, 2000; tr.it., 2002). Attraverso un percorso di ricerche genetiche avviate fin dal 1936 dallo psichiatra e neurologo Robert Ritter e dalla sua assistente Eva Justin, si giunse ad affermare che gli zingari non potevano essere considerati "ariani puri" ma "ariani decaduti", appartenenti a una "razza degenerata". A questo si aggiunse l’elaborazione di una teoria sulla presenza nel sangue zingaro del gene del Wandertrieb, «istinto al nomadismo», segnando cosí il destino di migliaia di persone. Una nuova connotazione genetica venne assunta come spartiacque per la sopravvivenza, centrata nei caso dei rom non sulla razza non “ariana”, ma su una caratteristica congenita attribuita ad un intero popolo. E’ su queste basi che il nazionalsocialismo ha perpetrato il tentativo di sterminio del popolo romaní: si stima che 500.000 rom, uomini, donne e bambini, siano stati sterminati nel Samudaripen (tutti morti in lingua romanes) o Parrajmos (divoramento), perpetrato nei campi di sterminio e ancor più nelle pratiche di sterminio di massa in diversi territori europei sotto l’influenza del Terzo Reich (Boursier,1995; Fings, Heusse, Sparing, 1996; tr.it., 1998; Lewy, 2000; tr.it., 2002; Rosenberg, 1998; tr.it., 2000).
2018
Straniero. Percorsi di analisi in sociologia
978-88-255-1803-0
storia del pensiero sociologico; rappresentazioni sociali; antiziganismo;
02 Pubblicazione su volume::02a Capitolo o Articolo
La "linea del confine". L'antiziganismo / Cipollini, Roberta. - STAMPA. - (2018), pp. 341-355.
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11573/1201147
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